RIFORMA CONSENSO VIOLENZA SESSUALE
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Riforma consenso violenza sessuale. «Senza consenso è violenza sessuale»: rischi e criticità della riforma dell’art. 609-bis c.p.
Il nuovo paradigma del consenso libero e attuale tra esigenze di tutela delle vittime e presunzione di innocenza.
Articolo a cura dell‘Avvocato Bertaggia di Ferrara→.
Riforma consenso violenza sessuale. Indice dei contenuti
- Il contesto e la ratio dichiarata della riforma
- Che cosa prevede il nuovo art. 609-bis c.p.
- Che cosa significa «consenso libero e attuale»
- Presunzione d’innocenza e prova dell’assenza di consenso
- L’impossibile prova positiva del consenso
- Il rischio di una inversione sostanziale dell’onere della prova
- Denunce false, riletture ex post e uso strumentale del procedimento penale
- I contrappesi interpretativi indispensabili
- Considerazioni conclusive
- FAQ sulla riforma del 609-bis c.p.
1. Il contesto e la ratio dichiarata della riforma
Il 19 novembre 2025 la Camera dei deputati ha approvato all’unanimità la proposta di leggeA.C. 1693-A (Boldrini ed altri), che sostituisce integralmente l’art. 609-bis c.p. in materia di violenza sessuale. Il testo, trasmesso al Senato come disegno di legge S. 1715, è ora all’esame dell’altro ramo del Parlamento.
Il cuore dell’intervento è noto anche al grande pubblico grazie allo slogan mediatico: «senza consenso è violenza sessuale». Il nuovo primo comma qualifica infatti come violenza sessuale qualsiasi atto sessuale posto in essere in assenza del consenso libero e attuale della persona coinvolta, mantenendo la cornice edittale della reclusione da sei a dodici anni.
La ratio dichiarata è quella di adeguare la disciplina interna alla Convenzione di Istanbul→, che definisce la violenza sessuale come atto sessuale non consensuale e descrive il consenso come frutto di libera volontà, da valutarsi tenendo conto delle circostanze del caso concreto.
In astratto, il passaggio da un modello centrato sulla coercizione (violenza, minaccia, abuso di autorità) a un modello incentrato sull’assenza di consenso risponde a una esigenza condivisibile di tutela dell’autodeterminazione sessuale. In concreto, (ma anche nella futura applicazione giudiziaria) però, la scelta legislativa solleva interrogativi molto seri sul terreno delle garanzie dell’imputato e della effettiva verificabilità processuale del dissenso.
Il rischio è che un messaggio politico semplificato – «basta un no» o, peggio, «basta un racconto» – si traduca, nella pratica giudiziaria, in una compressione silenziosa dei principi di presunzione di innocenza e di in dubio pro reo, i quali invece costituiscono il baricentro costituzionale e convenzionale del processo penale.
Si tratta di una vera e propria inversione dell’onere della prova: l’accusato (magari trovatosi tale perchè abbiente e denunziato per motivi di estorsione economica) dovrà fornire la probatio diabolica→ della sua innocenza sostanziale. Il più delle volte, come giudizio prognostico ex ante, non ci riuscirà.
2. Che cosa prevede il nuovo art. 609-bis c.p.
Il nuovo art. 609-bis c.p. è articolato in tre commi e sostituisce integralmente la formulazione previgente:
- il primo comma punisce chi ponga atti sessuali su altra persona senza consenso libero e attuale, con reclusione da sei a dodici anni;
- il secondo comma individua alcune modalità tipiche di mancanza o vizio del consenso (violenza, minaccia, abuso di autorità, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica, particolare vulnerabilità, sostituzione di persona);
- il terzo comma conferma l’attenuante speciale del caso di minore gravità, con riduzione della pena fino a due terzi.
Riforma consenso violenza sessuale. Rispetto al testo oggi vigente, la novità è evidente: non è più centrale l’uso di strumenti di coazione, ma l’assenza di una adesione che il legislatore qualifica come «libera» e «attuale». Le condotte elencate nel secondo comma non sono più la definizione stessa della violenza sessuale, bensì esempi in cui il consenso è presunto mancante o viziato.
L’operazione è coerente con le richieste del diritto sovranazionale, ma presenta due effetti collaterali che non possono essere sottovalutati:
- la fattispecie viene ampliata attraverso una clausola generale («assenza di consenso libero e attuale») priva di una definizione positiva nel codice penale;
- il baricentro del giudizio si sposta dalla verifica di fatti tendenzialmente oggettivabili (violenza, minaccia, abuso) alla ricostruzione ex post di una dinamica relazionale e comunicativa, spesso priva di testimoni e di riscontri documentali.
Ci rendiamo conto, in un sistema giudiziario dove le condanne, ad esempio, dei mariti denunciati dalle mogli di reati di violenza domestica, sono il 53% (Tribunale di Milano 2023→), che ciò significa che il 47% delle denunce sono infondate. Con una riforma come quella in esame dove l’unica prova per evitare la denunzia (nel caso di denuncia infondata) sarà quella di non avere rapporti sessuali neppure consenzienti, la percentuale di condannati ingiustamente rischia di salire vertiginosamente.
3. Che cosa significa «consenso libero e attuale»
Il testo non contiene una definizione autonoma di «consenso», ma richiama implicitamente – tramite i lavori preparatori e i materiali illustrativi – i criteri della Convenzione di Istanbul e dell’elaborazione giurisprudenziale recente.
In sintesi, possono considerarsi acquisiti alcuni punti:
- Libero significa non estorto mediante violenza, minaccia, ricatto, pressione psicologica, abuso di potere o sfruttamento di condizioni di inferiorità o vulnerabilità (stati di intossicazione, incoscienza o semincoscienza, disturbi psichici, rapporti di forte dipendenza o subordinazione, ecc.).
- Attuale implica che il consenso riguardi quel rapporto, in quel momento: un assenso prestato in passato, la stabilità della relazione, precedenti rapporti sessuali o il modo di vestire non possono di per sé legittimare la presunzione di consenso nel caso concreto. Il consenso è inoltre revocabile in ogni istante (magari a rapporto sessuale già in essere).
- Manifestato significa che il consenso può emergere da espressioni verbali oppure da comportamenti inequivocabilmente collaborativi; il semplice silenzio o la mera inerzia non possono, da soli, essere letti come assenso, soprattutto alla luce degli studi sul cosiddetto freezing (paralisi emotiva della vittima).
Già in questa sede si coglie il primo nodo critico: il giudizio penale non è chiamato solo ad accertare che cosa è accaduto, ma anche – e soprattutto – se, dentro quella dinamica, vi fosse o meno una volontà realmente libera e presente. Si tratta di una valutazione inevitabilmente segnata da amplissimi margini di opinabilità, tanto più ampi quanto più scarse sono le fonti di prova esterne al racconto dei protagonisti.
4. Presunzione d’innocenza e prova dell’assenza di consenso
La riforma del 609-bis non tocca, in linea di principio, i cardini del giusto processo: l’art. 27, secondo comma, Cost. (presunzione di innocenza), l’art. 6, par. 2 CEDU e l’art. 533 c.p.p., che impone al giudice di pronunciare condanna solo se la colpevolezza è provata «oltre ogni ragionevole dubbio».
Ciò comporta due conseguenze teoricamente incontestabili:
- spetta sempre all’accusa dimostrare tutti gli elementi costitutivi del reato, compresa l’assenza di consenso della persona offesa;
- in caso di dubbio ragionevole sulla ricostruzione del fatto o sulla percepibilità del dissenso da parte dell’imputato, il giudice deve pronunciare assoluzione.
La pratica giudiziaria, tuttavia, racconta qualcosa di più complesso. Da anni la giurisprudenza ammette che le dichiarazioni della persona offesa, se ritenute intrinsecamente attendibili e sottoposte a un vaglio particolarmente rigoroso (coerenza interna, costanza nel tempo, assenza di motivi di astio, compatibilità
con gli altri dati disponibili), possano costituire prova sufficiente anche da sole per affermare la responsabilità, senza la necessità di riscontri esterni in senso stretto.
Nei procedimenti per violenza sessuale, in particolare, il processo si traduce spesso in un conflitto tra due narrazioni inconciliabili:
- la persona che denuncia afferma, già per il solo fatto di attivare il procedimento, che l’atto è avvenuto senza consenso;
- l’imputato sostiene di avere agito nel convincimento opposto, ossia nella persuasione – talvolta solo implicita – che l’altro fosse consenziente.
In un modello costruito sulla coercizione, il giudizio verteva anzitutto sull’esistenza di condotte oggettive (violenza fisica, minaccia, abuso di autorità, approfittamento di inferiorità evidente). Nel nuovo modello centrato sul consenso, il cuore della decisione diventa l’accertamento – spesso solo psicologico e relazionale – dell’assenza di una adesione libera e attuale.
Ne deriva il rischio che, soprattutto nei casi privi di lesioni, testimoni o tracce oggettive, il baricentro probatorio si sposti quasi interamente sulla credibilità soggettiva della persona offesa, con la tentazione di considerare
«sufficiente» il suo racconto ogniqualvolta esso appaia internamente coerente ecompa tibile con un quadro vittimologico ritenuto tipico.
5. L’impossibile prova positiva del consenso
Dal punto di vista dogmatico, il consenso è un fatto storico e, come tale, potrebbe essere dimostrato con ogni mezzo di prova ammesso dall’ordinamento.
In concreto, però, la pretesa di una prova positiva del consenso in sede penale appare, nella maggior parte dei casi, difficilmente realizzabile.
Nelle relazioni affettive e sessuali ordinarie, infatti, il consenso:
- viene espresso per lo più attraverso dinamiche relazionali implicite, linguaggi del corpo, abitudini di coppia;
- raramente è oggetto di formalizzazioni esplicite (messaggi che dichiarino «acconsento a…»), se non in contesti molto particolari;
- si colloca nella sfera più intima della persona, in un contesto nel quale la presenza di testimoni o di strumenti di registrazione è, per definizione, eccezionale e spesso socialmente inappropriata.
Alcuni elementi possono, certamente, contribuire a ricostruire il quadro:
comunicazioni precedenti o contestuali (chat, email, note vocali), condotte durante l’atto (atteggiamento collaborativo o, al contrario, espressioni di rifiuto o disagio), condotte successive (messaggi, telefonate, incontri), eventuali testimonianze indirette, riscontri medico–legali o tecnici.
Ma proprio la fisiologica scarsità di tali elementi fa sì che, nella grande maggioranza dei casi, non esista alcuna “documentazione” del consenso. Pretendere che l’imputato produca prove positive di una adesione che normalmente non lascia tracce significa esporlo a una sorte di prova diabolica: un onere difensivo
tendenzialmente impossibile da assolvere.
A ciò si aggiunge un ulteriore profilo: la riforma presuppone, sul piano soggettivo, che l’agente conosca l’assenza di consenso o, quanto meno, accetti il rischio che esso manchi. Ciò impone al giudice di interrogarsi non solo sul fatto che la persona offesa non volesse l’atto, ma anche sul fatto che il suo dissenso fosse ragionevolmente riconoscibile nel concreto contesto relazionale.
Se la situazione era oggettivamente ambigua e l’imputato ha fatto affidamento, in buona fede, su segnali poi rivelatisi erronei, viene in rilievo il tema dell’errore sulla mancanza di consenso. In astratto, l’errore esclude il dolo e, nei limiti dell’art. 59, quarto comma, c.p., può condurre all’esclusione della responsabilità. In concreto, però, la prassi rischia di appiattire questa verifica sul solo esito dell’istruttoria: se il racconto della persona offesa convince, l’errore viene di fatto escluso.
Il combinato disposto tra una fattispecie fondata sull’assenza di consenso e la difficoltà, per l’imputato, di dimostrare positivamente il contrario apre così la strada a una tentazione pericolosa: chiedere all’imputato «quali prove porti dell’avvenuto consenso» invece di domandarsi se l’accusa abbia provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il consenso mancava e che il dissenso fosse chiaramente percepibile.
Il disastro giudiziario che arriverà dalle numerosissime denunzie artatamente false ed estorsive, è facilmente intuibile anche ai non esperti di diritto.
Crediamo che tale riforma modificherà profondamente i costumi sessuali degli italiani, rende ndo ulteriormente difficile le relazioni fra i sessi, già attualmente divise fra femminismo esasperato→ e mobimenti redpill→.
6. Il rischio di una inversione sostanziale dell’onere della prova
Alcune letture giornalistiche e perfino talune prese di posizione dottrinali, commentando arresti giurisprudenziali recenti, sembrano talvolta suggerire che «il consenso deve essere sempre esplicito e l’onere di provarlo grava sull’imputato».
Si tratta di affermazioni che, se prese alla lettera, entrano in frontale collisione con la struttura del processo penale e con i principi costituzionali e convenzionali in tema di presunzione di innocenza.
È evidente che, sul piano culturale, sia necessario contrastare stereotipi minimizzanti («se non ha reagito voleva», «se è rimasta è consenziente»). Ma tale obiettivo non può essere perseguito attraverso la creazione, di fatto, di una presunzione di non consenso ogniqualvolta l’imputato non sia in grado di esibire una prova positiva di consenso.
Se la combinazione tra:
- fattispecie centrata sull’assenza di consenso;
- difficoltà fisiologica di documentare positivamente il consenso;
- aspettativa sociale di «credere sempre alla vittima»;
dovesse tradursi, nella prassi, nella regola non scritta «in mancanza di prova del consenso si presume il non consenso», ci troveremmo dinanzi a una vera e propria inversione sostanziale dell’onere della prova. Una inversione che, oltre a porsi in tensione con l’art. 27 Cost. e con l’art. 6, par. 2 CEDU, rischierebbe di svuotare di contenuto la regola dell’«oltre ogni ragionevole dubbio».
Il pericolo è duplice:
- da un lato, condanne pronunciate sulla base di quadri probatori deboli, nei quali la ricostruzione alternativa prospettata dalla difesa non venga realmente confutata, ma solo ritenuta «meno credibile» del racconto accusatorio;
- dall’altro, la trasformazione in prassi di un dovere informale di autotutela probatoria in capo a chiunque intrattenga rapporti sessuali (registrare conversazioni, conservare messaggi, raccogliere prove preventive), con effetti distorsivi sulla stessa libertà e spontaneità delle relazioni intime e con possibili conflitti con la disciplina in materia di privacy e di trattamento illecito di immagini e dati personali.
7. Denunce false, riletture ex post e uso strumentale del procedimento penale
Il tema delle denunce false o strumentali in materia di violenza sessuale è particolarmente sensibile. Esso viene spesso agitato in modo ideologico: da un lato, per delegittimare le denunce di violenza di genere; dall’altro, per negare in radice la possibilità stessa di accuse infondate.
Gli studi empirici disponibili in ordinamenti comparabili collocano la quota di segnalazioni qualificabili come falsamente accusatorie in una forbice generalmente compresa tra il 2% e il 6% dei casi, a seconda delle definizioni adottate e dei criteri di classificazione. Si tratta dunque di un fenomeno numericamente
minoritario rispetto alle violenze effettive, ma non per questo trascurabile:
ogni singolo caso di condanna ingiusta per un reato di tale gravità rappresenta un fallimento radicale dello Stato di diritto.
In Italia, l’ordinamento conosce già uno strumento specifico per reprimere le accuse consapevolmente infondate: l’art. 368 c.p. sul delitto di calunnia, che punisce chi incolpa qualcuno, davanti all’autorità, di un reato sapendolo
innocente o simula a suo carico le tracce di un reato mai commesso.
La riforma del 609-bis, tuttavia, rende particolarmente sensibili alcuni contesti nei quali il confine tra conflitto relazionale e imputazione penale può divenire sottile:
- crisi familiari e separazioni, ove l’allegazione di violenza sessuale può incidere su affidamento dei figli, assegnazione della casa familiare, rapporti economici tra le parti;
- rapporti di lavoro o di dipendenza economica, nei quali la denuncia può intrecciarsi con controversie su licenziamenti, mancati avanzamenti di carriera, conflitti organizzativi;
- vicende di «rilettura ex post», in cui un rapporto inizialmente vissuto come desiderato viene in seguito percepito – talvolta in buona fede, talvolta no – come lesivo della propria immagine o della propria rete
relazionale, con la tentazione di reinterpretarlo come mai veramente voluto.
Sarebbe però altrettanto fuorviante concludere che le false accuse siano «la regola» o che la maggior parte delle denunce siano strumentali: la violenza sessuale resta un reato gravemente sottodenunciato, come mostrano da anni le indagini statistiche nazionali e internazionali.
Il compito del diritto penale non è schierarsi «a favore» dell’una o dell’altra narrazione, ma predisporre regole e prassi che consentano di distinguere, con il massimo grado di affidabilità possibile, tra accuse fondate e accuse infondate: tutelando in modo effettivo sia le vittime reali sia gli imputati ingiustamente coinvolti.
8. I contrappesi interpretativi indispensabili
Perché la riforma del 609-bis possa rafforzare la tutela dell’autodeterminazione sessuale senza sacrificare le garanzie dell’imputato, è necessario che giurisprudenza e prassi adottino alcuni criteri di lettura particolarmente rigorosi.
- Centralità del criterio della «riconoscibilità» del dissenso:
il giudice deve accertare non solo che la persona offesa non volesse l’atto, ma che il suo dissenso, per come si è manifestato nel concreto contesto relazionale, fosse percepibile da un consociato medio nelle stesse condizioni dell’imputato. Ciò non significa pretendere reazioni eroiche o impossibili, ma impone di motivare in modo puntuale come e quando l’imputato avrebbe dovuto comprendere il rifiuto. - Valutazione complessiva del contesto, non della “moralità” della persona offesa:
il riferimento al contesto, voluto dalla Convenzione di Istanbul, non può tradursi in un giudizio sulla vita privata, sulle abitudini sessuali o sull’abbigliamento della vittima. L’attenzione deve concentrarsi su dati
oggettivi: luogo, tempi, modalità dell’incontro, eventuali sostanze assunte, dinamica delle comunicazioni prima e dopo il fatto. - Rifiuto esplicito di qualunque regola di tipo «in dubio pro victima»:
la legittima attenzione alle esigenze di protezione delle vittime non può trasformarsi in una regola probatoria surrettizia opposta all’in dubio pro reo.
Ogni condanna deve poggiare su un quadro probatorio che renda altamente implausibile l’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa. - Uso responsabile degli strumenti probatori tecnologici:
messaggi, chat, video e registrazioni possono risultare decisivi, ma pongono problemi di riservatezza e di potenziale integrazione di reati autonomi (si pensi, ad esempio, alla diffusione non consensuale di immagini o video sessualmente espliciti). L’ordinamento dovrebbe scoraggiare l’idea di «documentare» sistematicamente i rapporti sessuali come forma di autotutela penale. - Applicazione non timida del reato di calunnia:
nei casi in cui emerga con chiarezza la consapevolezza dell’innocenza dell’accusato, l’attivazione dell’art. 368 c.p. rappresenta un segnale necessario di tutela non solo della persona falsamente incolpata, ma anche della credibilità complessiva del sistema repressivo in materia di violenza sessuale. - Formazione specialistica di tutti gli operatori:
magistrati, avvocati, forze di polizia e consulenti tecnici devono essere formati sia sul versante criminologico e vittimologico, sia – con pari intensità – sul versante delle garanzie processuali, per evitare che lodevoli obiettivi di tutela si traducano in prassi incompatibili con il diritto di difesa e con la presunzione di innocenza.
9. Considerazioni conclusive
La scelta di fondare il reato di violenza sessuale sull’assenza di un consenso libero e attuale rappresenta un allineamento importante dell’ordinamento italiano agli standard internazionali e a un percorso culturale
che da anni insiste sulla centralità dell’autodeterminazione in campo sessuale.
Tuttavia, la tecnica legislativa prescelta – una clausola generale ampia, priva di una definizione positiva di consenso e fortemente dipendente da valutazioni del contesto – affida un potere selettivo enorme alla giurisprudenza di merito. In assenza di contrappesi robusti sul terreno probatorio, il rischio è duplice:
- da un lato, condanne pronunciate su basi probatorie fragili, soprattutto nei casi privi di riscontri esterni e giocati quasi esclusivamente sul confronto tra le dichiarazioni dei protagonisti;
- dall’altro, aspettative irrealistiche di tutela per le vittime, laddove la difficoltà di accertare il dissenso nel concreto contesto relazionale conduca comunque a proscioglimenti, alimentando frustrazione e sfiducia
nel sistema.
La riforma non può trasformare per decreto la complessità delle relazioni affettive e sessuali, né può eliminare ambiguità, malintesi o fraintendimenti. Può però – se interpretata e applicata con rigore – offrire un quadro in cui
il principio «senza consenso è violenza sessuale» non si traduca in «basta un racconto per condannare», ma si coniughi con un altrettanto fermo impegno a non sacrificare l’innocente in nome, pur nobilissimo, della
lotta alla violenza di genere.
Resta affidato agli operatori del diritto – magistrati, avvocati, forze di polizia – il compito di tradurre questo equilibrio in prassi concrete, capaci di coniugare la massima protezione per le vittime con il massimo rispetto delle garanzie dell’imputato, nella consapevolezza che ogni deviazione da questo bilanciamento incide direttamente sulla credibilità del sistema penale.
Le considerazioni contenute in questo articolo hanno carattere esclusivamente informativo e non costituiscono parere pro veritate né consulenza legale su casi specifici.
FAQ sulla riforma del 609-bis c.p.
La riforma consente di condannare solo sulla parola della persona offesa?
In linea di principio no: la presunzione di innocenza e la regola dell’«oltre ogni ragionevole dubbio» restano pienamente vigenti. Tuttavia, poiché nella maggior parte dei casi non vi sono testimoni o riscontri oggettivi, il peso del racconto della persona offesa diventa centrale.
Il rischio concreto è che, in assenza di adeguati contrappesi interpretativi, la giurisprudenza finisca per considerare sufficiente una dichiarazione ritenuta credibile, avvicinando di fatto il sistema a una condanna «sulla parola» della sola parte accusatrice.
Che cosa cambia, concretamente, nel nuovo art. 609-bis c.p.?
Il nuovo testo sposta il fulcro della fattispecie dall’uso di violenza, minaccia o abuso di autorità all’assenza di consenso libero e attuale della persona coinvolta.
Le condotte di costrizione e induzione diventano modalità tipiche attraverso cui il consenso manca o viene viziato. Rimane invariata la cornice edittale (reclusione da sei a dodici anni) e viene confermata l’attenuante speciale del caso di minore gravità.
Come può l’imputato dimostrare il consenso in un processo per violenza sessuale?
In astratto, con ogni mezzo di prova ammesso (comunicazioni, testimoni, riscontri tecnici). In pratica, però, la maggior parte delle relazioni sessuali non lascia tracce verificabili: non esistono registrazioni, i messaggi sono spesso ambigui, non vi sono testimoni diretti.
Pretendere una prova positiva di consenso significa, molto spesso, richiedere all’imputato una prova diabolica. Il giudice dovrebbe quindi concentrarsi sulla solidità delle prove dell’accusa e sulla effettiva riconoscibilità del Dissenso nel contesto concreto, più che sull’assenza di “documenti” difensivi prodotti dall’imputato.
Le false denunce sono davvero un problema rilevante?
Le ricerche internazionali suggeriscono che le denunce intenzionalmente false costituiscono una minoranza
dei casi, ma esistono e non possono essere ignorate. A esse si aggiungono le situazioni di rilettura ex post dei fatti o di percezioni distorte, che possono comunque sfociare in procedimenti penali.
Ogni singola condanna ingiusta per violenza sessuale ha un costo umano e sociale altissimo: il sistema deve quindi essere progettato per ridurre al minimo il rischio di errori giudiziari, senza per questo scoraggiare le vittime dal denunciare fatti di reale violenza.
La riforma è in contrasto con la presunzione di innocenza e con l’art. 27 Cost.?
Sul piano formale, no: il testo non modifica le norme sulla presunzione di innocenza né la regola probatoria dell’«oltre ogni ragionevole dubbio». Il problema nasce sul piano applicativo.
Se la combinazione tra fattispecie centrata sul consenso e scarsità fisiologica di prove oggettive dovesse portare, in concreto, a pretendere dall’imputato la prova positiva dell’assenso, si realizzerebbe una inversione sostanziale dell’onere della prova, incompatibile con l’art. 27 Cost. e con l’art. 6 CEDU.
Che ruolo ha il reato di calunnia nella prevenzione degli abusi del sistema?
L’art. 368 c.p. rappresenta un presidio essenziale contro le accuse consapevolmente infondate, ma viene applicato con grande prudenza anche per evitare effetti dissuasivi sulle vittime reali.
Proprio la gravità delle conseguenze personali e reputazionali di un’accusa infondata di violenza sessuale rende auspicabile un uso non timido di tale strumento nei casi in cui emerga, al termine del processo, la piena consapevolezza della falsità dell’imputazione.
Hai ricevuto una denuncia per violenza sessuale che ritieni falsa o strumentale?
La riforma del 609-bis c.p. accresce il peso delle dichiarazioni della persona offesa e rende ancora più delicata la posizione di chi viene coinvolto in un procedimento penale per presunte condotte sessuali non consensuali.
Lo Studio Bertaggia, sezione diritto penale→ offre assistenza specifica per:
- analizzare in dettaglio la denuncia e il materiale probatorio a carico;
- impostare una strategia difensiva mirata nei procedimenti per presunta violenza sessuale;
- valutare la sussistenza dei presupposti per reagire a eventuali accuse calunniose;
- fornire consulenza preventiva su come ridurre il rischio di denunce malevole in contesti personali,
familiari o lavorativi ad alta conflittualità.
Per una valutazione personalizzata del tuo caso o per una consulenza preventiva riservata, contatta lo Studio Bertaggia tramite i recapiti indicati nella pagina “Contatti” del sito.
Le informazioni contenute in questa pagina sono di carattere generale e non sostituiscono la consulenza legale su casi concreti.



