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Nell’ambito della dichiarazione infedele ed abuso del diritto, di cui all’ Art. 4 d.lg. 10 marzo 2000 n. 74, con indicazione di elementi attivi per ammontare inferiore a quello effettivo, solitamente si riscontra un accertamento dell’imposta evasa attraverso presunzioni.
Orbene tale presupposto ha un’insufficienza probatoria nel processo penale, infatti l’abuso del diritto, parametrato al criterio del valore normale comporta l’utilizzabilità della figura giuridica e del criterio nel solo ambito tributario. Vi è quindi insufficienza per l’integrazione del reato. L’esterovestizione, con atipicità della condotta fa sì che l’illiceità non sussita.
DICHIARAZIONE INFEDELE ED ABUSO DEL DIRITTO: UFFICIO INDAGINI PRELIMINARI MILANO, 29/04/11 N. 828. ABUSO NON SUFFICIENTE PER DIMOSTRARE LA SUSSISTENZA DEL REATO
La figura del cd. “abuso del diritto“, non codificata e creata dalla giurisprudenza, sviluppatasi in ambito tributario, nonché il criterio presuntivo legale del valore normale, tipico dell’accertamento tributario, non sono di per sé sufficienti a dimostrare la sussistenza del reato: tali elementi dovranno essere rivalutati con i criteri della prova penale, anche sotto il profilo degli indizi gravi, precisi e concordanti, di cui all’art. 192 c.p.p. Ciò è quando stabilisce l’Ufficio Indagini preliminari Milano, 29/04/2011, n. 828
Valutando appieno la parte introduttiva della sentenza, si evidenziano elementi di fondamentale rilevanza: nella sentenza che ci accingiamo a valutare il Giudice, conclude per il proscioglimento in quanto unico ed inevitabile esito dell’esame delle risultanze processuali nella particolare fattispecie della dichiarazione infedele ed abuso del diritto.
Il proscioglimento costituisce la soluzione privilegiata quando l’iter logico seguito e “… le soluzioni proposte si collocano su un piano strettamente penalistico, segnando chiari confini con il complesso mondo del diritto e dell’accertamento tributario, il cui importante ingresso nel diritto penale, come sostrato di fattispecie comuni o speciali, non può stravolgere consolidati principi e garanzie anche di rango costituzionale.” Da ciò deriva che “…. Gli stessi elementi di fatto evidenziati dall’amministrazione finanziaria dovranno essere rivalutati con i criteri della prova penale, anche sotto il profilo degli indizi gravi, precisi e concordanti di cui all’art. 192 comma 2 c.p.p.”.
Ribadisce poi il Magistrato, che “…. il principio di autonomia dei rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario impediscono l’automatica trasferibilità delle presunzioni tributarie nel processo penale, alieno da ogni forma di prova legale ed ancorato all’onere della prova in capo all’accusa.”
DICHIARAZIONE INFEDELE ED ABUSO DEL DIRITTO: PROCESSO TRIBUTARIO ININFLUENTE IN AMBITO PENALE. IL PROSCIOGLIMENTO
Dall’esame quindi del testo della sentenza si appalesa un percorso logico volto alla riaffermazione del principio cd. del “doppio binario“, per cui il processo tributario ed il processo penale per reati tributari non devono interferire tra loro, ma devono obbligatoriamente seguire un percorso autonomo ed indipendente.
Nella realtà concreta, purtroppo, a mente del D.Lgs. n. 74/2000, il principio di netta separazione fra processo tributario e processo penale ha subìto numerose quanto censurabili deroghe, alcune delle quali apprezzabili in quanto volte ad evitare il contrasto di giudicati per il medesimo caso concreto, altre sicuramente non condivisibili: esemplificativamente si può citare il raddoppio dei termini per l’accertamento tributario in presenza di un’ipotesi di reato, previsto dall’art. 37 DL n. 223/2006.
A mente della citata disposizione, infatti, l’esistenza di un procedimento penale o anche di una denuncia ex art. 347 c.p.p., comporta un nuovo termine, diverso e maggiormente lungo di quello ordinario per l’accertamento tributario, determinando, in modo “personalizzato“, in quanto dipendente dalla decisione del funzionario tributario, non esperto di diritto penale, un connubio fra il procedimento tributario e quello penale. La sentenza citata, a parere di chi scrive, mette invece nel giusto alveo i processi logici appartenenti ai rispettivi procedimenti penali e tributari, caratterizzati da peculiari regole processuali. Il tutto concerne, ovviamente, i rispettivi criteri di valutazione della prova. Si dirà: proprio per ciò che concerne il profilo probatorio il principio di autonomia dei due procedimenti ha la sua ragion d’essere.
Esterovestizione ed elusione: l’abuso del diritto, la sentenza.
Sintetizzando la sentenza i fatti contestati, integrati dai due capi d’imputazione, sono i seguenti:
– gli imputati avrebbero costituito all’estero una società di capitali, asseritamente (eccepisce l’accusa) gestendola di fatto dall’Italia; – tale società estera avrebbe goduto di un regime fiscale agevolato rispetto a quello nazionale, nonostante il paese estero in contestazione non fosse in black list; – la suddetta società avrebbe acquistato dai due principali imputati, intesi come persone fisiche, i marchi di loro proprietà, A) ad un prezzo inferiore a quello di mercato, riconducibile al cd. “valore normale” (quale? deciso da chi? con che parametri? ndr); B) simulatamente in quanto la proprietà dei marchi sarebbe sempre rimasta in capo alle persone fisiche, soltanto apparentemente cedenti.
Nella descrizione delle condotte e dei fatti, oltre che nei capi d’imputazione, ci si appoggia (erroneamente!) esclusivamente alla figura creata dalla giurisprudenza tributaria, mai codificata, dell’abuso del diritto.
Orbene, detto istituto è di creazione giurisprudenziale, non essendo minimamente codificato.
Dichiarazione infedele ed abuso del diritto, ciò consisterebbe nell’uso distorto dell’autonomia contrattuale e della libera iniziativa privata, che attraverso una concatenazione di atti legittimi persegue finalità esclusivamente rivolte al risparmio d’imposta, pur in assenza di violazioni della normativa fiscale. Si tratta quindi di un uso improprio della legge, un uso della stessa per fini che non le sono propri; quindi, un utilizzo della legge difforme dalla volontà del legislatore, piuttosto che contrarietà alla stessa.
Ma come fa un utente del diritto, che ottempera pedissequamente al testo della norma scritta a capire quale fosse la volontà del legislatore, o meglio, dei suoi successivi interpreti? Usa forse la precognizione? la telepatia?
Pare invece possibile affermare come un istituto non codificato in quanto di elaborazione giurisprudenziale non può essere incasellato in nessuna previsione penale stante il principio di stretta legalità di cui all’art. 25 Cost.: come tale non potrebbe fare ingresso nel processo penale strictu sensu.
A ben guardare, se la costituzione della società all’estero fosse simulata, fittizia e finalizzata esclusivamente a frapporre uno schermo territoriale estero per impedire l’applicazione delle imposte italiane, come aveva sostenuto l’accusa, che contestava il reato di truffa aggravata piuttosto che la dichiarazione fraudolenta ex art. 3 D.Lgs. n. 74/2000, ci si sarebbe imbattuti in una condotta illecita, di carattere fraudolento, e non soltanto ad uno sviamento della legge: non si capisce quindi come possa fare ingresso nel processo penale l’abuso del diritto.
Qualora, la società estera esistesse realmente e fosse altrettanto realmente residente ed operativa all’estero, anche se limitatamente alla gestione dei diritti derivanti dalla proprietà dei marchi (esiste una norma che lo vieti? no), come sostenuto dall’Agenzia delle Entrate, che ha contestato il reato di omessa dichiarazione, ci si troverebbe innanzi non più ad una condotta fraudolenta: però, atteso che la società estera sarebbe stata costituita al precipuo scopo di ottenere un trattamento fiscale più favorevole, gli atti ed i contratti attinenti alla stessa, non vietati dalla legge, sarebbero inopponibili all’amministrazione finanziaria e quindi la società verrebbe comunque considerata esterovestita, poichè lo svolgimento di siffatte condotte descritte integrerebbe una fattispecieelusiva disciplinata dall’art. 37 bis DPR n. 600/1973.
Anche qualora si volesse ammettere che la condotta contestata, integrando, secondo l’amministrazione finanziaria, il reato di omessa dichiarazione, fosse riconducibile ad una delle ipotesi normativamente previste dall’art. 37 bis cit., comunque risulterebbe inutile il richiamo al principio, di dichiarazione infedele ed abuso del diritto.
Dal processo in commento si evidenzia l’emergere di una prassi che si è rafforzata negli ultimi tempi, secondo la quale gli organi preposti all’accertamento tributario considerano l’abuso del diritto come una contestazione standard, comprensiva di una serie di infrazioni che talvolta rimarrebbero tali anche senza la contestazione dell’abuso del diritto.
Non si capisce come possa fare, in uno stato di diritto ed improntato al principio di libera concorrenza, un utente del diritto a discernere fra ciò che è abuso e ciò che non lo è: noi crediamo che vi sia per il contribuente il diritto di scegliere in modo legittimo e trasparente, tra i diversi comportamenti consentiti dall’ordinamento, quello meno oneroso fiscalmente. Diversamente tutto è abuso, salvo scegliere di corrispondere l’imposta massima anche quando, per determinate fattispecie (una fra tante, il conferimento di immobile in società comunitaria a tassa fissa) non vi è la possibilità di pagare detta imposta: con ciò si vanifica l’intera creazione legislativa comunitaria.
PRESUNZIONI TRIBUTARIE E DIRITTO PENALE
Le presunzioni tributarie cozzano con la tipicità della fattispecie penale La sentenza in commento si basa, per i due capi d’imputazione su:
– la rilevanza penale del discostamento del prezzo dichiarato di compravendita dei marchi rispetto al c.d. “valore normale di mercato“, concetto astratto ed opinabile alquanto; – la riconducibilità di una condotta elusiva contemplata dall’art. 37 bis DPR n. 600/1973 ad una fattispecie penale.
Si evidenzia innanzitutto come il Giudice Penale abbia escluso qualsiasi ipotesi di responsabilità penale, ciò a maggior ragione quando si discute di dichiarazione infedele ed abuso del diritto.
Per quanto concerne il primo capo d’imputazione, sempre in ambito di dichiarazione infedele ed abuso del diritto, si contesta la pretesa incongruità del prezzo dichiarato di vendita del marchio e la non corrispondenza al cd. “valore normale di mercato“. Ricordiamoci che stiamo trattando la dichiarazione infedele e l’abuso del diritto, quindi: il valore normale, generalmente corrispondente al prezzo di mercato, nel caso di specie è stato ricostruito presuntivamente, senza parametrarlo a casi simili del medesimo settore merceologico. La presunzione è quindi priva di riscontri, ed anzi contraddetta dalle numerose stime effettuate, tutte diverse fra di loro. Nella sentenza viene tra l’altro evidenziato come non siano stati raccolti altri elementi indiziari desumibili da accertamenti bancari o testimoniali.
Il Magistrato, dunque, nella sentenza in esame postula come non sia possibile utilizzare, da parte dell’amministrazione finanziaria, il mero valore difforme fra corrispettivo dichiarato e valore normale del bene quale prioritario ed come unico elemento di prova dell’evasione, diversamente verrebbe a crollare l’autonomia contrattuale.
Se tale assunto pare attagliarsi all’ambito tributario, così deve essere anche in campo penale, considerato che il riconoscimento della responsabilità per il delitto di dichiarazione infedele richiede “...la prova del nascondimento dei corrispettivi, non che il prezzo dichiarato non sia quello determinato presuntivamente dalla legge“. Come logica conseguenza si ricava che l’esistenza della prova in questione dev’essere ricercata e valutata seguendo i criteri dettati dal codice di procedura penale e, peculiarmente, dell’art. 192 comma 2 c.p.p.: ciò anche in ambito di dichiarazione infedele ed abuso del diritto.
Per meglio comprendere il ragionamento del Giudice si riporteranno alcuni passi della sentenza, per comprendere il problema delle eventuali ricadute penali derivanti dall’applicazione dell’art. 37 bis cit.
In sentenza si riporta: “…l’elusione fiscale presenta tratti quasi antinomici, essendo caratterizzata, per un verso, da una concatenazione di atti leciti; per altro verso, da una marcata atipicità, che confligge con il principio di tipicità e determinatezza della fattispecie penale“. D’altra parte, nel D.Lgs. n. 74/2000 non viene espressamente prevista “…una fattispecie penale tributaria a condotta libera e tipizzata solo attraverso l’esatta indicazione dell’evento. Ma tale norma, una sorta di ‘omicidio’ fiscale, non esiste …“
La sentenza prosegue dichiarando come non sia casuale il fatto che il Legislatore del 2000 abbia “…utilizzato espressamente la (sola) parola ‘evasione’, se non avesse voluto espressamente circoscrivere in quell’ambito l’operatività delle fattispecie incriminatrici….”. Viene quindi osservato che ” l’evasione costituisce l’oggetto del dolo specifico di tutte le fattispecie penali tributarie, con conseguenze decisive…. il dolo specifico…. colloca al centro della volontà cosciente proprio il disvalore della condotta o, per altro verso, il bene giuridico tutelato, con funzione selettiva e quindi restrittiva di condotte altrimenti lecite o diversamente illecite… la previsione del fine di evadere le imposte non è ultronea ma – unitamente alle soglie di punibilità – partecipa alla tipizzazione della condotta, assumendo una specifica funzione selettiva, coerente con la motivazione politico-criminale a cui si ispira la riforma del 2000…. In conclusione, l’argomento letterale che esclude tutte le ipotesi elusive non si fonda solo sul mero ricorso alla parola ‘evasione’, ma ne esalta la specifica funzione ermeneutica, in quanto oggetto del dolo specifico, che circoscrive la condotta incriminata alle sole ipotesi di evasione in senso tecnico“.
Concludendo potremo affermare come, nonostante il particolare periodo storico che stiamo vivendo, anche all’imputato per reati tributari devono essere attribuiti gli stessi diritti e le stesse garanzie di qualsivoglia altro imputato di fronte al Giudice, ed alla legge, ciò vale anche per la dichiarazione infedele ed abuso del diritto.
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Avvocato dal 1993, Cassazionista dal 2009. Collaboro con imprenditori e professionisti nella pianificazione fiscale e nella creazione di società estere. Mi occupo anche di penale internazionale ed italiano. Coadiuvo uno Studio con numerosi collaboratori professionisti, sia avvocati che commercialisti. Se hai una questione giuridica da risolvere, contattami, troverò le risposte legali adeguate.
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