TASSE E CRIPTOVALUTE
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Tasse e criptovalute. Bitcoin e criptovalute vanno dichiarate nei redditi? Devono essere pagate lei tasse sulle plusvalenze dei bitcoin? I Bitcoin vanno dichiarati?
Queste le domande più frequenti fatte da chi ha deciso di investire in valuta virtuale.
Articolo a cura dello Studio Legale Avvocato Bertaggia di Ferrara→.
La risposta è si, va dichiarato allo Stato quanta valuta virtuale si possiede, sulla relativa tassazione il discorso è diverso, ma andiamo con ordine.
TASSE E CRIPTOVALUTE: LE DICHIARAZIONI NEL QUADRO RW
T.A.R. Lazio Roma, Sez. II ter, 27/01/2020, n. 1077: “In materia di obblighi dichiarativi per il monitoraggio fiscale le valute virtuali devono qualificarsi redditi finanziari di provenienza estera, e come tali vanno indicate nel quadro RW“, e ancora: “È legittimo l’obbligo di indicazione delle criptovalute nel quadro RW. Gli atti dell’Agenzia delle entrate i quali, nell’approvare le istruzioni per la compilazione del Mod. UNICO Persone Fisiche 2019, indicano tra i redditi finanziari di provenienza estera suscettibili di inserimento nel quadro RW anche le valute virtuali, non hanno natura costitutiva della corrispondente obbligazione tributaria, ma sono meramente ricognitivi di obblighi dichiarativi già esistenti.“
Le criptovalute vanno quindi indubitabilmente dichiarate come se fossero attività finanziarie di fonte estera. Nessun dubbio in proposito.
Il loro ammontare dovrà essere riportato nella dichiarazione dei redditi ed inserito nel quadro RW, dove bisognerà indicare il controvalore in euro posseduto alla data del 31 dicembre dell’anno d’imposta di riferimento, secondo il tasso di cambio vigente in quella data.
Precisamente, secondo le istruzioni fornite dall’Agenzia occorrerà riportarli al rigo RW1, nella colonna 3 con il codice 14 («Altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali»), senza necessità di inserire, nella successiva colonna 4, il codice «Stato estero» (che sarebbe di difficile se non impossibile individuazione, trattandosi di valuta digitale e virtuale e non di una normale moneta ufficiale radicata in uno Stato).
In altri termini, se si considera l’investimento in bitcoin come una normale attività finanziaria suscettibile di produrre redditi imponibili in Italia, l’utilizzo di un wallet tramite un intermediario non residente che sia anche “custode” della chiave privata di accesso al portafoglio elettronico (custodial wallet) configura l’obbligo di compilazione del quadro RW della dichiarazione, indicando il controvalore in euro della valuta virtuale, determinato al cambio indicato a tale data dal sito ove il contribuente ha acquistato la valuta virtuale.
Se invece il titolare delle criptovalute (residente in Italia) detiene in proprio la chiave privata di accesso al portafoglio elettronico, egli è esonerato dall’obbligo di dichiarare l’investimento nel quadro RW, in quanto, secondo quanto stabilito nel Model tax convention on income and on capital, si presume che chi possiede la valuta virtuale risieda nel medesimo paese dove paga le tasse.
TASSE E CRIPTOVALUTE: UNA DEFINIZIONE GIURIDICA DI CRIPTOVALUTA
La criptovaluta tipo bitcoin (oppure ETH, XRP, ADa etc) pone numerosi problemi sotto il profilo del suo specifico inquadramento giuridico-tributario, atteso che è una fattispecie che presenta natura e funzioni miste. Al fine di poter individuare il trattamento tributario più appropriato bisogna iniziare dal loro scopo di impiego: ecco che, considerata la loro elevata volatilità, lo scambio di criptovalute non può avere funzione esclusivamente solutoria, ma anche speculativa. La criptovaluta, a ben guardare, non è denaro in senso tecnico, bensì un’entità multifunzionale e priva di radicamenti giuridici statali o territoriali, protesa ad ingenerare un’aspettativa di profitto, così come un elevato rischio di perdita. Benché in Italia l’Agenzia delle Entrate, in sede di interpello, le abbia equiparate a valute estere, le caratteristiche intrinseche delle criptovalute rendono impossibile un rigido inquadramento in categorie giuridiche già esistenti e suggerisce, viceversa, di analizzare caso per caso il trattamento fiscale più appropriato e coerente con il loro utilizzo e detenzione.
Secondo una tassonomia proposta dalla European Banking Authority (EBA) e dal Global Digital Finance (GDF) è possibile enucleare tre macro-categorie di crypto-assets, in ragione della loro funzione economica.
Esse possono consistere:
A. in mezzi di pagamento funzionali all’acquisto di beni o servizi ovvero al trasferimento di denaro (i c.d. payment token);
B. in utility token, che funzionano come un voucher che dà diritto al possessore di ricevere in futuro un bene o servizio;
C. in token di investimento (c.d. security – or asset and financial – token), che garantiscono il diritto alla percezione futura di interessi, dividendi o flussi finanziari.
TASSE E CRIPTOVALUTE: IL TRATTAMENTO TRIBUTARIO
Il tema del trattamento tributario delle criptovalute ha trovato la sua sede di analisi nell’ambito dei lavori sulla tassazione dell’economia digitale e, in particolare, nei lavori volti ad arginare i fenomeni riconducibili al c.d. BEPS (Base erosion and profits shifting) dell’OCSE (del 2015) e in particolare nell’Action plan 1, da cui emerge che le criptovalute presentano, in comune con le altre aree dell’economia digitale, il mistero della dissolvenza del contribuente, insieme alla difficoltà di localizzazione della fonte dei proventi a fini fiscali, e quindi l’utilizzo e detenzione di esse presenta rischi di evasione.
Il documento di indirizzo ad oggi più completo è il report dell’OCSE dell’ottobre 2020 “Taxing virtual currencies. An overview of Tax treatmentts and emerging tax policy issues”, redatto grazie al contributo di oltre 50 giurisdizioni, in cui viene fatta una prima vera ricognizione degli approcci di regolamentazione tributaria (nei tre macro settori delle imposte sul reddito, sui consumi e sulla proprietà) adottati per le criptovalute dai vari Paesi.
Per fare chiarezza va precisata la differenza tra:
- vendere o comprare Bitcoin con una piattaforma di trading;
- acquistare bitcoin o altre valute virtuali su un exchange di criptovalute.
La prima situazione corrisponde a trading di Bitcoin, i cui proventi sono tassati al 26% sulla base delle proprie capacità di TRADER e solo dopo aver prelevato il denaro dal proprio conto corrente.
La seconda situazione, ovvero exchange di criptovalute, corrisponde ad un reale acquisto di valuta virtuale e quindi le somme investite dovrebbero essere passibili di imposta nel momento in cui si compie il cambio in euro.
Ricordiamo che, nella realtà, la criptovaluta non risiede nel wallet, dove invece permangono le chiavi private che servono all’utente per disporre l’operazione che la rete convaliderà; la criptovaluta esiste soltanto in forma di registrazione nel ledger e il suo spostamento da un portafoglio all’altro non è che la risultante della sua validazione e della conseguente creazione di un nuovo blocco. In altri termini, il bitcoin resta “salvato” sul ledger e, in quanto tale, non risiede in nessuna giurisdizione. Ciò che rileva, quindi, non è il luogo dove viene salvato bitcoin, ma la possibilità di disporne.
Inoltre si deve distinguere tra cosa deve fare un investitore privato da un’impresa.
TASSE E CRIPTOVALUTE: IL TRATTAMENTO TRIBUTARIO. L’INVESTITORE PRIVATO
La tassazione dei Bitcoin per l’ investitore privato ovvero persona fisica.
Il cittadino privato che non esercita un’attività finanziaria con lo scopo di ottenere plusvalenze non deve pagare le imposte, nemmeno in caso di realizzazione di queste.
Il Bitcoin è considerato al pari di una valuta estera per cui vigono le stesse normative per il cambio euro/dollaro.
Va però precisato che l’Agenzia delle Entrate considera come attività speculativa e quindi tassabile la plusvalenza, l’attività del cittadino privato che durante il decorso di un anno ha superato l’ammontare di Bitcoin per un valore di circa 51.000 euro per un minimo di 7 giorni.
Da precisare che le plusvalenze sono individuate solo nell’istante della vendita delle criptovalute e le tasse andrebbero pagate solo in caso di generazione di plusvalenza dalla vendita delle suddette.
Le plusvalenze finanziarie sono tassate con un’aliquota del 26% e devono essere riportate in dichiarazione dei redditi negli spazi appositi.
TASSE E CRIPTOVALUTE: IL TRATTAMENTO TRIBUTARIO. LE PERSONE GIURIDICHE, LE IMPRESE
Per le imprese i Bitcoin devono essere trattati alla stregua di una valuta estera, quindi nonostante non sia necessario dichiarare quanti se ne posseggano è però necessario dichiarare tutte le operazioni effettuate, come per tutte le altre valute.
Di conseguenza per un’impresa, dal punto di vista fiscale, burocratico o amministrativo, trattare dollari, euro o Bitcoin non fa alcuna differenza.
Resta valido il discorso delle plusvalenze tassabili in caso di vendita della criptovaluta.
Come detto per il privato le plusvalenze vengono rilevate solo al momento della vendita o alla chiusura del bilancio e di conseguenza passibili di tassazione.
Questi ragionamenti sono emersi dall’interpretazione della Risoluzione Ministeriale n. 72 E del 02.09.2016 effettuata da parte dell’Agenzia delle Entrate che ha così decretato:
- il Bitcoin è moneta che può essere considerata alternativa a quella tradizionale;
- la compravendita di Bitcoin in cambio di euro è considerata un’operazione di cambio valuta e come tale esente da IVA;
- le Società che lavorano in Bitcoin devono dichiarare in bilancio gli eventuali guadagni o le eventuali perdite ottenute dal cambio della valuta oppure al momento della chiusura del bilancio si registrano le eventuali perdite o guadagni;
- per i privati, in assenza di rilevata attività speculativa, non sono considerati redditi e non sono previste tassazioni.
Mancano però i riferimenti nel caso in cui il privato effettui attività speculativa, ma essendo il bitcoin considerato come valuta, si presume si applichino le stesse norme vigenti per gli speculatori in ambito monetario.
Da notare che il privato viene considerato come colui che effettua attività speculativa solo se possiede per oltre 7 giorni il corrispondente in bitcoin di 100.000.000 di vecchie lire ed effettui la vendita/cambio in moneta corrente generando quindi una plusvalenza che produce reddito imponibile e quindi dichiarato, rilevato e sottoposto a tassazione. Ma il privato non è tenuto alla chiusura del bilancio a fine anno, quindi le plusvalenze derivanti dal possesso di Bitcoin possono solo essere individuate al momento della loro vendita/cambio.
In definitiva non esiste una normativa che preveda la tassazione dei Bitcoin ed altre criptovalute, bensì solo indicazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate stessa a seguito di una interrogazione a riguardo. Vedi Risoluzione n. 72/E del 2016 su Bitcoin e criptovalute.
L’Italia è stato il primo tra gli stati membri ad accogliere la IV direttiva antiriciclaggio e ad inserire, tramite il D.L. 90/2017, la definizione di “valute virtuali” e “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale” nel nostro ordinamento.
In ultima analisi, oltre a ricorrere al consiglio di un dottore commercialista o di un avvocato esperto in materia di criptovalute e sul pagamento delle imposte vigenti sulle stesse, i punti basilari su cui ragionare sono:
- i Bitcoin sono trattati dal Fisco come moneta;
- per le imprese che operano in criptovaluta valgono le stesse normative fiscali come per quelle che operano in euro;
- le imposte sono dovute solo sulle possibile plusvalenze;
- per le imprese le plusvalenze vengono rintracciate solo a chiusura di bilancio o nel momento della vendita delle criptovalute;
- per i privati le plusvalenze vengono rintracciate solo in caso di possesso per oltre 7 giorni dell’equivalente di 51.000 euro in Bitcoin.
TASSE E CRIPTOVALUTE: PROFILI DI ANTIRICICLAGGIO
Vi è un aspetto del meccanismo di scambio delle criptovalute di particolare rilevanza, in quanto esso rileva per ciò che concerne, più nello specifico, i profili di compliance e reporting e, più in generale, condiziona il grado delle pretese tributarie.
Si tratta dell’anonimato (o pseudo-anonimato), intendendo per tale l’assenza di collegamento alcuno con un nominativo riferito al soggetto utilizzatore/detentore di criptovaluta. Le transazioni in bitcoin sono totalmente anonime, cioè non richiedono la condivisione di alcuna informazione personale per essere portate a compimento, e consentono trasferimenti a livello transnazionale in assenza di supervisione mediante la tecnologia peer-to-peer che, unita alla crittografia, rende estremamente difficile intercettare il punto di partenza e il punto di arrivo delle singole transazioni. Se è vero, dunque, che ogni transazione viene registrata sul registro pubblico condiviso e quindi vi è una piena tracciabilità delle movimentazioni di bitcoin, i soggetti utilizzatori/detentori sono indicati con una stringa di 33 caratteri, che è l’hash della chiave pubblica.
L’anonimato, tuttavia, è assoluto solo ed esclusivamente se l’utente gestisce il wallet in autonomia, ovvero se compra la valuta virtuale direttamente da un miner o esso stesso è un miner. In questo caso l’indentificazione dei soggetti sarebbe possibile solo attraverso investigazioni della polizia postale sugli indirizzi IP associati ai wallets.
Al contrario, se gli utenti si rivolgono ad una società specializzata che gestisce per conto del cliente il wallet e se questa società specializzata è regolata, è possibile ed agevole identificare i proprietari dei wallets grazie alla normativa antiriciclaggio.
Le direttive europee antiriciclaggio hanno, infatti, assoggettato gli operatori in criptovalute agli obblighi di prevenzione del riciclaggio; più nello specifico, in Italia, il d.lgs. n. 125 del 4 ottobre 2019, di attuazione della V direttiva antiriciclaggio (UE 2018/843), ha introdotto nel d.lgs. n. 231 del 2007 apposite misure per prevenire il riciclaggio connesso all’impiego di valute virtuali, specificando che nell’attività di cambiavalute si devono ritenere compresi i servizi di conversione “in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute” (art. 1, 2° comma, lett. ff).
Prevede, inoltre, l’inclusione nella disciplina dei prestatori di servizi di portafoglio digitale, i c.d. wallet provider definiti come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche on line, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per contro dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali” (art. 1, 2° comma, lett. ff-bis)
Si ricorda, a quest’ultimo proposito, che gli uffici dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di Finanza possono accedere ai documenti, ai dati e alle informazioni acquisiti per l’assolvimento dell’obbligo di adeguata verifica della clientela, quindi a tutte le informazioni in materia di antiriciclaggio.
A questo proposito ricordiamo che anche i redditi derivanti dallo staking di criptovalute→, sono tassabili al 26%,
TASSE E CRIPTOVALUTE: LA POSIZIONE DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE
A parere dell’Agenzia delle entrate, le operazioni di cambio di valuta legale con criptovalute, sarebbero assimilate ad operazioni di cambio con valute estere: l’ADE, richiama la sentenza della CGUE del 2015, e dice che l’attività di cambio V.V./V. legale deve essere considerata quale prestazione di servizi esente iva ai sensi dell’art. 10, n. 3, del d.p.r. n. 633 del 1972. Quest’ultima è la norma italiana che ha recepito la norma di esenzione contenuta nella direttiva (art. 135, lett. E), e lo ha fatto in termini più stringenti, in quanto “lega” l’esenzione alla condizione che l’operazione di cambio riguardi valute estere aventi corso legale.
L’assimilazione alle valute estere, da un punto di vista fiscale, comporta:
per gli intermediari (soggetti commerciali):
1. esenzione iva;
2. tassazione del reddito derivante dall’attività di intermediazione nell’acquisto e vendita di bitcoin, al netto dei relativi costi inerenti a detta attività;
3. valutazione dei bitcoin che a fine esercizio sono nella disponibilità della società secondo il cambio in vigore a fine esercizio.
per le persone fisiche, clienti della società che non sono imprenditori, l’ADE ha chiarito che le operazioni di conversione di valuta virtuale generano un reddito diverso di natura finanziaria, ai sensi dell’art. 67, 1° comma, lett. c-ter e comma 1-ter t.u.i.r., alla stregua dei principi che regolano le operazioni aventi ad oggetto le valute tradizionali, e quindi:
1. le operazioni a pronti non generano reddito imponibile perché manca l’intento speculativo;
2. l’intento speculativo si presume (e quindi si applica un’aliquota del 26% sulla plusvalenza):
· se le operazioni sono a termine;
· quando l’operazione è a pronti ma la giacenza media dei depositi e conti correnti detenuto dal cedente abbia superato il controvalore di 51.645,69 euro per almeno 7 giorni consecutivi.
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Articolo aggiornato al 15 Gennaio 2022